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Psicologia e Cinema: “Never have I ever”… il leggero che fa riflettere

Analizziamo insieme, da un punto di vista psicologico, la serie tv targata Netflix: “Never have I ever”.

A cura di Sara Alicandro – scrittrice, cinefila e saggista dello spettacolo

Supervisione e approfondimenti: Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari

Uno tra i tanti schemi narrativi ricorrenti che troviamo tra le produzioni Netflix – la piattaforma streaming più utilizzata al mondo – è quello che riguarda l’universo adolescenziale, analizzato sotto i suoi vari e sfaccettati aspetti: la sessualità, i primi approcci al mondo esterno, le primissime relazioni sentimentali, il mondo della scuola, i contrasti con la famiglia di origine e molto, molto altro.

C’è da dire, per quanto l’ambito possa interessare o meno, che le produzioni Netflix di questo tipo nella maggior parte dei casi si rivelano di qualità, intelligenti e difficilmente scontate.

Attraverso le storie trattate, si riesce spesso e volentieri a ripercorrere delle zone della propria emotività e crescita personale che – indirettamente – ci riguardano tutta la vita, e che avremmo bisogno di ricordare di tanto in tanto.

Qualche esempio:

È il caso dell’acclamatissima serie tv Sex Education, con protagonista l’impacciato ma tenero Otis Milburn (interpretato da un efficacissimo Asa Butterfield), che si presenta con la solita – riconoscibilissima – veste della serie tv che tratta tematiche da relegare e attribuire esclusivamente a quelle esperienze e a quella fascia d’età; in effetti, è questo lo spirito con la quale si comincia a guardarla. Poi, però, non è così. Si inizia con qualche momento commovente qua e là, andando avanti non può più essere casuale e si finisce per concludere il viaggio visivo con alle spalle delle riflessioni importanti e qualche consapevolezza in più.

Sulla stessa riga troviamo la serie americana Never have I ever – della quale parleremo in questo articolo -, magari non caratterizzata dallo stesso british humor, ma sicuramente brillante e sorprendente per la sua capacità di saper comunicare la bellezza e la complessità della mente umana, nella sua fase adolescenziale e non solo.

Premessa alla trama (con pochissimo spoiler)

Devi Vishwakumar è una teenager di origini indiane che vive negli Stati Uniti fin dalla propria nascita; il primo anno di superiori vede il suo amatissimo padre morire di fronte ai suoi occhi, e da quel momento in poi non è più la stessa. L’alternanza (ben calibrata) di dramma e humor si intuisce già dal fatto che la prima reazione di Devi al lutto subìto è un’improvvisa paralisi delle gambe che nessun dottore è in grado di spiegare razionalmente, paralisi che termina solo tre mesi dopo, con l’immagine di lei che si alza senza nemmeno farci caso dalla sedia a rotelle nel mezzo di un parcheggio per guardare da lontano il “figo” della scuola, Paxton Hall-Yoshida, e la madre che – prima distratta – se ne accorge e grida al miracolo.

Psicologia del personaggio principale

Devi incarna la tipologia standardizzata di personaggio della ragazza straniera, secchiona, considerata poco appetibile da un punto di vista fisico e con conseguenti problemi di autostima. I suoi compagni a scuola non hanno nemmeno troppo riguardo di quello che le è capitato, anzi iniziano a diffondersi ben presto voci secondo cui lei avrebbe finto fin dal principio di essere paralitica per essere compatita. Ha due amiche, Fabiola e Eleanor, che le voglio bene in un modo sincero, ma a complicare la sua esistenza è la dimensione di invisibilità in cui è costretta a vivere e la sua nemesi maschile, Ben Gross, l’unica persona non amica a cui riesce a tenere testa, ma a colpi di insulti.

Di questo e molto altro Devi parla con la sua psicologa, la dottoressa Ryan, che cerca disperatamente di aiutarla a cambiare prospettiva per non gettarsi in situazioni nocive, ma inutilmente. Infatti, la ragazza si rivela essere il classico paziente che decide di andare in terapia, ma non vuole davvero essere aiutato; numerose sono le scene in cui i colloqui tra le due appaiono evidentemente inutili e un sostanziale spreco di tempo da entrambe le parti.

Una discesa senza fondo… con rinascita

L’elemento più interessante della serie è infatti il fatto che si sviluppi come una progressiva discesa senza fondo di Devi in un vortice di comportamenti tossici e distruttivi che la porteranno – involontariamente – a fare del male a sé stessa e alle persone che le stanno vicino.

In termini più semplici, anche se lo spettatore è perfettamente consapevole che lei non sia una cattiva ragazza, allo stesso tempo lei non mette in atto nessun atteggiamento che dimostri il contrario.

Già dice molto il fatto che Devi sia letteralmente ossessionata da questo ragazzo, Paxton, ma allo stesso tempo si svaluta a tal punto da non considerarsi nemmeno lontanamente in grado di potersi avvicinare a lui in un senso romantico.

Perciò, disperata, arriva a fargli la richiesta priva di dignità di concederle soltanto dei rapporti sessuali. Il ragazzo accetta, ma è una possibilità che Devi non riuscirà mai a mettere in pratica, fondamentalmente perché il suo inconscio sa (e menomale) che non è quello che vuole.

Questo è solo l’esempio più lampante i una serie di disastri che la protagonista compie nel tentativo (fallace) di ricostruire la sua interiorità, frantumata dalla perdita.

Si renderà conto – e concederà – di star soffrendo solamente quando a scuola inizieranno tutti a chiamarla “crazy Devi” e in terapia con la Ryan si concederà di piangere liberamente e di mostrarsi ferita da tutto quello che le è capitato e che ha causato a persone a cui tiene.

Davvero emozionante e veritiera è l’affermazione che la terapista fa vedendola in questo stato: “[…] non significa che sei pazza, significa che sei umana. Devi, tu hai una grande sensibilità, il che talvolta comporta grande sofferenza, però questo vuol dire soprattutto che avrai una vita emotiva intensa ed estremamente gratificante, una vita piena di bellezza.

Da qui, solamente da qui, può cominciare la re-azione vera e propria di Devi, insieme ad una visione del padre morto che le dirà che il fatto che lei sia la sua “perfect girl” non significa che debba essere perfetta sempre, perché qualcosa del genere non esiste e non è nella natura umana.

È solo quella che Russ Harris chiamerebbe la “trappola della felicità”, l’illusione che per essere felici e far funzionare la nostra vita dobbiamo sempre essere in forma e non sbagliare mai.

Conclusione

In conclusione, forse è doveroso dare a queste leggere ma significative esperienze artistiche il riconoscimento che spetta loro. Anche perché è ora che si capisca che leggerezza quasi mai è sinonimo di superficialità. A volte, anzi, ci serve alzarci un po’ da terra per riconoscerci in un prodotto artistico, imparare veramente da esso.

Questo, nello specifico ci comunica, che nella nostra esistenza potremmo imbatterci in portatori di energia negativa, incappare in meccanismi narcisistici, di abbandono, di mortificazione e di tossicità in generale. In ogni caso, possiamo sempre superarli e sconfiggerli: con l’amore per s° stessi, per gli altri, con la gioia di essere al mondo e il desiderio di mettersi in cammino e migliorarsi, sempre.

A cura di Sara Alicandro – scrittrice, cinefila e saggista dello spettacolo

Instagram: https://www.instagram.com/saralicandro_/

Supervisione e approfondimenti: Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari

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